venerdì 8 febbraio 2013

Le carte perdute di Solone



Heard melodies are sweet, but those unheard
are sweeter.

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J. KEATS, Ode on a Grecian Urn
                         
    Per la sua portata storica e per la ricca messe di leggende che ha alimentato, la figura di Solone resta senza eguali nell'età arcaica. Vissuto a cavallo tra il VII e il VI secolo a.C., Solone è ricordato soprattutto come statista e legislatore: nel 594 fu eletto arconte con il beneplacito dell'intera popolazione ateniese e si prodigò nel tentativo di pacificare le contese cittadine e di alleviare le sperequazioni sociali. Ma egli è anche un gigante della poesia elegiaca del VI secolo, e i suoi pochi frammenti sono sufficienti a illuminarne la grandezza.
   Solone è un simbolo vivente della Grecia arcaica: nella sua pratica di vita le due anime della Grecità, quella politica e quella poetica, si compenetrano in un'unità feconda e irripetibile. Quale delle due anime prevalga in lui è impossibile da dire. Sarebbe quanto mai limitante considerare Solone come un legislatore che traduce in versi la propria concezione politica o come un poeta che ascende al potere (l'etichetta che più gli si attaglia è, semmai, quella del sapiente). Il margine di saldatura tra le due esperienze andrà individuato in una straordinaria sensibilità umana, che le fonti gli attribuiscono unanimemente (perché un'azione di governo degna di rispetto muove dalla considerazione delle esigenze della collettività), e soprattutto in una severa religiosità, unica misura dell'intera sua opera.


* * *

La nostra città non perirà per volontà di Zeus:
non è questo il destino, non è questo il disegno degli dèi.
Una dea dal grande animo ci protegge, Pallade Atena,
figlia di altissimo padre, e tiene la sua mano su di noi.
Ma sono i cittadini stessi che vogliono distruggere
la grande patria – ciechi! - sedotti dal denaro,
e la mente ingiusta dei capi: ma li attende certo,
per la loro violenza, immenso male.
Sazietà non sanno, né godere con mente serena
le gioie lecite del convivio.

ἡμετέρη δὲ πόλις κατὰ μὲν Δΐoς οὔποτ᾽ ὀλεῖται
αἶσαν καὶ μακάρων θεῶν φρένας ἀθανάτων:
τοίη γὰρ μεγάθυμος ἐπίσκοπος ὀβριμοπάτρη
Παλλὰς Ἀθηναίη χεῖρας ὕπερθεν ἔχει:
αὐτοὶ δὲ φθείρειν μεγάλην πόλιν ἀφραδίησιν
ἀστοί βούλονται χρήμασι πειθόμενοι,
δήμου θ᾽ ἡγεμόνων ἄδικος νόος, οἷσιν ἑτοῖμον
ὕβριος ἐκ μεγάλης ἄλγεα πολλὰ παθεῖν:
οὐ γὰρ ἐπίστανται κατέχειν κόρον οὐδὲ παρούσας
εὐφροσύνας κοσμεῖν δαιτὸς ἐν ἡσυχίηι

fr. 4 (trad. di M. Cavalli)

    Il frammento si inquadra in un'elegia dal titolo Eunomia («La giusta legge») e descrive in termini drammatici la grave crisi etica e sociale in cui versa Atene, prossima al tracollo. I versi successivi completano il quadro: cittadini ridotti in schiavitù, rapine, lotte spietate, atti sacrileghi, giovani mandati a morte; sullo sfondo, la Giustizia che vigila in silenzio: Solone non potrebbe usare parole diverse per raccontare la fine dei tempi. E in effetti il sovvertimento dell'ordine sociale (la disnomia) e l'esplosione dei conflitti segnano quasi un ritorno al caos primordiale.
    Ma non è stato Zeus a meditare dolori per la città. La colpa è solo degli uomini, che, «sedotti dal denaro», allucinati dal miraggio delle ricchezze, non si sono fatti scrupolo di conculcare la legge e di sfidare gli dèi, pur di elevare la propria condizione.
    Le vicende umane assecondano un copione infallibile: all'atto di tracotanza (hýbris) fa riscontro l'intervento della giustizia (dike), di cui gli dei sono dispensatori (o strumenti). È un meccanismo consequenziale che pertiene all'ordine naturale delle cose e non contempla eccezioni (sempre che non si intervenga per tempo): il castigo divino si abbatte sugli empî con furia esatta e mette a nudo la vanità dei loro desiderî.
    In questo caso, a farne le spese è la città intera. Il «male comune», la punizione naturale, si materializza come l'ombra di un carnefice, «bussa alla porta del singolo, / e le porte non vogliono fermarlo, / e balza oltre l'alta muraglia, e tutti sorprende / e non serve fuggire in rifugi nascosti.»
    Solone è il profeta di una divinità fatale, che opera secondo un consiglio oscuro e al suo apparire suscita negli uomini un moto d'orrore. La poesia soloniana cresce all'ombra di questo sentimento, una forma di “sublime religioso” che si obiettiva in immagini catastrofiche e di grande impatto visivo (l'assalto violento, la tempesta, la morte). Gli dèi concedono agli uomini le ricchezze, «da cui nasce rovinosa cecità» (ate); gli uomini, divenuti empî, cadono vittima della trappola che Zeus ha teso loro per punirli: essi pagano lo scotto della propria finitudine ogniqualvolta tentano di scavalcarla. La punizione loro inflitta, più che un'azione correttiva, sembra in questo caso la vendetta di una divinità troppo umana, e perciò tanto più spietata. (Questa visione trova conferma nell'Elegia delle Muse, che si può considerare il Padrenostro dell'antica religione ellenica, sospesa tra il più tetro pessimismo e un senso oscuro di impotenza).
    Non è facile sottrarsi alla sventura se non la si previene al momento opportuno, né è sufficiente la buona volontà perché il «male comune» sia scongiurato. È per questo che le riforme di Solone, ispirate a istanze d'ordine e di pace sociale, lungi dal ripristinare la concordia, gettano piuttosto la città in nuovi disordini. E il buon legislatore, conscio che «nelle grandi cose piacere a tutti è difficile», è travolto dall'onda del suo insuccesso e non ha altra scelta che lasciare la città, in attesa che i malumori rientrino. Intraprende così un viaggio per il Mediterraneo, mosso da un istinto ulissiaco e da un connaturato desiderio di conoscenza. Da questo momento in poi le notizie sul suo conto si fanno sempre più nebulose e sconfinano nell'aneddotica.

* * *

    È pieno autunno, ad Atene si celebrano le feste Apaturie. Sono passati poco meno di centocinquant'anni da quando Solone ha lasciato la città ed è salpato per l'Egitto. Molte cose sono cambiate da quel giorno: Atene, alla testa della lega di Delo, è ormai una grande potenza, ha esteso il proprio controllo su vaste aree dell'Egeo e ha adottato una costituzione democratica radicale.
    Immaginiamo una mattina tiepida, le strade della città percorse da un vento leggero, qualche nuvola che trascorre pigramente sui cieli dell'Acropoli. In occasione della festa, i giovinetti della città recitano a gara delle poesie, recuperandole dall'ampio repertorio della tradizione. Fra di loro è anche Crizia il Giovane, un ragazzino di circa dieci anni (che avrà un ruolo di primaria importanza nella politica ateniese di fine secolo). Attraverso i suoi ricordi, riportati da Platone nel dialogo Timeo, rievochiamo i casi e i discorsi di una giornata che con ogni probabilità non è mai esistita, ma in cui pure ci piace credere.
    «Vennero recitate numerose poesie di vari poeti, e molti di noi ragazzi cantammo anche poesie di Solone, in quanto a quel tempo erano nuove. Allora, uno del nostro gruppo […] disse che gli sembrava che Solone fosse stato non solo sapientissimo nelle altre cose, ma anche nella poesia il più nobile fra tutti i poeti.»
    Il giudizio espresso dal ragazzo attira l'attenzione del nonno di Crizia, Crizia il Vecchio. Il quale «si rallegrò molto, sorrise e disse: “[...] se egli [Solone] non si fosse occupato di poesia in modo accidentale, ma se si fosse impegnato con serietà come gli altri, e avesse portato a termine quel racconto che aveva portato dall'Egitto, e, a motivo delle discordie e a causa degli altri mali che trovò dopo che era ritornato qui, non fosse stato costretto a trascurarla, secondo la mia opinione né Omero né Esiodo né qualsiasi altro poeta sarebbe diventato più famoso di lui.”»
   Sollecitato dalle domande dei ragazzi, il vecchio Crizia narra loro di come Solone fosse venuto a conoscenza dell'antico racconto.

   Facciamo anche noi un passo indietro. Dopo aver lasciato Atene in balia di sé stessa, Solone sbarca sulle coste africane e si intrattiene in diverse città. A Sais, sul delta del Nilo, viene accolto benevolmente dai sacerdoti della dea Neith. È uno di loro, Sonchis, a narrargli le imprese gloriose di cui Atene è stata protagonista novemila anni prima, in un'epoca remota e dimenticata da tutti (fuorché dagli Egizi, che ne hanno serbato e tramandato la memoria).
   La narrazione del sacerdote egizio dischiude a Solone l'immagine di un'Atene antidiluviana, luminosa e perfetta, tenuta salda dall'azione di uomini incorrotti e valenti guerrieri, regolata da un ordinamento politico senza pecche, sicura sotto l'egida di Atena, «amante della guerra e della sapienza». A quel tempo la città, postasi a capo di un'ampia coalizione, aveva risposto all'attacco di un esercito di invasori provenienti da Occidente. Erano gli Atlantidi, abitanti di un'isola «più grande della Libia e dell'Asia messe insieme», che si estendeva di là dalle colonne d'Ercole e godeva della protezione di Poseidon, dio del mare. Atlantidi e Ateniesi avevano ingaggiato uno scontro memorabile, che si era risolto, infine, a favore di questi ultimi.
    Il racconto relativo all'Isola Atlantide e alla guerra contro Atene suscita l'entusiasmo di Solone, il quale, tornato in patria dopo varie peregrinazioni, decide di immortalarlo in un poema.

    Stando a Platone, Solone abbandonò il progetto perché si trovò a fronteggiare nuove difficoltà insorte nel frattempo ad Atene; secondo Plutarco, «l'interruppe non perché occupato da altri impegni, come dice Platone, ma piuttosto per l'età avanzata, spaventato dalla mole del lavoro.» Ciò che è certo è che l'opera non venne mai portata a termine.
    Tutte le informazioni che possediamo su Atlantide non ci vengono quindi da Solone, ma da Platone, che descrive il continente con stupefacente (e sospetta) precisione nel Crizia. Il discorso è affidato a Crizia il Giovane, che – ancora giovinetto, come si è visto – aveva ascoltato il racconto dalla viva voce del nonno.
    Atlantide era un sogno emerso dalle acque: ricchissima, lussureggiante di piante aromatiche e alberi da frutto, battuta da mandrie di elefanti, ospitava templi, cantieri, impianti di canalizzazione, ponti, regge sontuose. Sulla sommità di un rilievo si ergeva il tempio di Poseidon, un edificio colossale e dall'«aspetto barbarico». Le mura, le colonne e il pavimento erano rivestite di oricalco, un metallo prezioso di cui non si ricorda altro che il nome. Platone ci dà anche dei ragguagli sull'assetto dell'esercito, sull'assemblea dei re, sullo «statuto di Poseidone», sui sacrifici rituali (come quelli da espletare prima che i sacerdoti, vestiti d'azzurro, formulassero i loro giudizi al calar delle tenebre).
    Per molto tempo gli Atlantidi condussero una vita virtuosa, senza tradire le proprie origini divine (Atlante, primo re dell'isola, era figlio di Poseidon). Si mostrarono capaci di affrontare gli imprevisti della vita e di gestire «con disinvoltura la gran massa dell'oro e delle altre risorse che possedevano, ma come si porterebbe un peso, senza lasciarsi ubriacare dal lusso e senza perdere il controllo di sé.» Ma a lungo andare, come sempre accade, le passioni umane prevalsero. Infranta l'alleanza con il mondo divino, il popolo degli Atlantidi imboccò un cammino di decadenza irreversibile, lasciandosi sopraffare dal lusso, dai vizi, dalle ricchezze. Furono gli stessi abitanti i responsabili della propria caduta: Zeus deliberò di punirli «nel giusto modo, perché riacquistassero equilibrio e saggezza.»
    A questo punto s'interrompe la narrazione di Platone, per cui il Crizia è «l'unica opera incompiuta fra molte stupende.» Non sappiamo a quale castigo Crizia (ovvero Platone) intendesse alludere, ma possiamo ben immaginarlo, perché il destino dell'Isola ci è riferito altrove dall'autore. Raccolte le proprie forze, gli Atlantidi estesero il proprio controllo fino all'Oriente, mossero guerra agli Ateniesi e ne furono sconfitti, perdendo i territori conquistati, che andavano dall'Egitto alla Tirrenia. «In tempi successivi, però, essendosi verificati terribili terremoti e diluvi, nel corso di un giorno e di una brutta notte, [...] l'Isola Atlantide, [...] sommersa dal mare, scomparve.»
    Con una catastrofe si chiudeva la sfortunata parabola del continente, inghiottito dalle acque dell'Oceano con i suoi tesori di arte e di civiltà.

   Nel modo in cui si è detto Solone era venuto a conoscenza del racconto di Atlantide: originale, inaudito, evocativo, aveva tutte le carte in regola per essere trasformato in un poema, ed egli non si lasciò sfuggire l'occasione. Mise pe
r iscritto i nomi dei protagonisti, che il sacerdote di Sais gli aveva riferito, cercando di comprenderne il significato e traslitterandoli in greco. Stando a Platone, le carte in cui Solone avrebbe registrato tali nomi, destinati ad essere impiegati nel poema, sarebbero state trasmesse a un suo parente stretto, Dropide. Da Dropide sarebbero passate a Crizia il Vecchio e poi al nipote di quest'ultimo, Crizia il Giovane («Ebbene questi scritti li aveva mio nonno, e ora li possiedo io, che nella mia giovinezza li ho letti e riletti.»).
    Questa storia, beninteso, fa acqua da tutte le parti: ognuno giudicherà dell'inverosimiglianza della storia di Atlantide e di quella – meno nota – del poema cui Solone avrebbe posto mano per raccontarla. Ci troviamo in presenza di uno pseudobiblium, cioè di un'opera inesistente, menzionata da autori diversi come fosse un'opera reale.
    E tuttavia, ipotizziamo per un attimo che dietro il resoconto del Crizia vi sia un fondo di verità, che notizie relative all'opera incompiuta di Solone siano giunte a Platone (che era peraltro suo discendente), magari non in forma scritta. L'Atlantide di Solone sarebbe in questo caso un eccezionale esempio di aborto letterario. Si badi: non una qualsiasi opera incompiuta, ma un poema epico che – a giudizio di Platone – avrebbe potuto rivaleggiare con le opere di Omero ed Esiodo. Non solo: esso avrebbe trattato il mito più bello e più oscuro che l'antichità ci abbia consegnato. Non c'è dubbio che, se Solone fosse riuscito a ultimarla, la considereremmo oggi come il terzo pilastro della letteratura greca.
    Parleremo quindi dell'Atlantide come di un capolavoro in potenza. Il soggetto dell'opera si adegua perfettamente alla sensibilità di Solone: narrando le vicende dell'Isola egli tocca il nodo centrale del rapporto tra umano e divino e traccia un itinerario di decadenza che muove da una situazione di ordine iniziale (l'Atlantide fiorente e magnanima delle prime generazioni) verso una situazione finale di caos. L'atto di hýbris degli Atlantidi prelude alla loro sconfitta da parte della coalizione continentale, capeggiata da Atene. La storia dell'Isola culmina nell'inabissamento, una catastrofe di proporzioni bibliche che, nella sua essenza poetica, si presta a esprimere il senso di “sublime religioso” al quale sono improntati tanti dei versi superstiti di Solone. Rivediamo – alla luce delle considerazioni fin qui svolte – il passo dell'Eunomia in cui il poeta ritraeva l'imminente rovina di Atene:

La nostra città non perirà per volontà di Zeus:
non è questo il destino, non è questo il disegno degli dèi.
Una dea dal grande animo ci protegge, Pallade Atena,
figlia di altissimo padre, e tiene la sua mano su di noi.
Ma sono i cittadini stessi che vogliono distruggere
la grande patria – ciechi! - sedotti dal denaro,
e la mente ingiusta dei capi: ma li attende certo,
per la loro violenza, immenso male.
Sazietà non sanno, né godere con mente serena
le gioie lecite del convivio.

    Contenuti e toni simili avremmo trovato nell'Atlantide, dove pure si raccontava la degenerazione di un popolo di uomini «ciechi» e la sua fine. Asse portante dell'opera sarebbe stata la lezione etica della superbia punita, resa immortale dalla rappresentazione epica del cataclisma.
    Né Solone né Platone completarono il racconto sull'Isola. Il maremoto che la fece sprofondare è metafora dell'oblio in cui essa si è volontariamente richiusa.
  
Atlantide è molto più che un continente perduto: è un'Idea, intorno alla quale si condensano tutti i sensi occulti dello spirito umano, dal sentimento della bellezza al terrore del divino; è un soggetto irrequieto, vivo e ribelle, un germe di poesia e un monito sempre operante, un «personaggio» che vuole rimanere senza autore per non rinunciare alla propria natura ideale.
    La «storia che Solone portò dall'Egitto» mette radici in quella terra inspiegabile dove arcaicità e verità si incontrano: quanto più si profonda nel passato, mediante la riflessione e la ricerca, tanto più l'uomo sente di avvicinarsi al segreto delle cose, all'ἐτυμολογία dell'esistenza. In questo senso, meditare sulla storia e sul destino di Atlantide significa interrogarci sulla nostra identità.

Gianluca Furnari

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