Heard melodies are sweet, but those unheard
are
sweeter.
- J. KEATS, Ode on a Grecian Urn
- J. KEATS, Ode on a Grecian Urn
Per la sua portata storica e per la ricca
messe di leggende che ha alimentato, la figura di Solone resta senza
eguali nell'età arcaica. Vissuto a cavallo tra il VII e il VI
secolo a.C., Solone è ricordato soprattutto come statista e
legislatore: nel 594 fu eletto arconte con il beneplacito dell'intera
popolazione ateniese e si prodigò nel tentativo di pacificare le
contese cittadine e di alleviare le sperequazioni sociali. Ma egli è
anche un gigante della poesia elegiaca del VI secolo, e i suoi pochi
frammenti sono sufficienti a illuminarne la grandezza.
Solone è un simbolo vivente della
Grecia arcaica: nella sua pratica di vita le due anime della
Grecità, quella politica e quella poetica, si compenetrano in
un'unità feconda e irripetibile. Quale delle due anime prevalga
in lui è impossibile da dire. Sarebbe quanto mai limitante
considerare Solone come un legislatore che traduce in versi la
propria concezione politica o come un poeta che ascende al potere
(l'etichetta che più gli si attaglia è, semmai, quella del
sapiente). Il margine di saldatura tra le due esperienze andrà
individuato in una straordinaria sensibilità umana, che le fonti gli
attribuiscono unanimemente (perché un'azione di governo degna di
rispetto muove dalla considerazione delle esigenze della
collettività), e soprattutto in una severa religiosità, unica
misura dell'intera sua opera.
* * *
La nostra città non perirà per volontà
di Zeus:
non è questo il destino, non è questo
il disegno degli dèi.
Una dea dal grande animo ci protegge,
Pallade Atena,
figlia di altissimo padre, e tiene la sua
mano su di noi.
Ma sono i cittadini stessi che vogliono
distruggere
la grande patria – ciechi! - sedotti
dal denaro,
e la mente ingiusta dei capi: ma li
attende certo,
per la loro violenza, immenso male.
Sazietà non sanno, né godere con mente
serena
le gioie lecite del convivio.
ἡμετέρη δὲ πόλις κατὰ
μὲν Δΐoς οὔποτ᾽ ὀλεῖται
αἶσαν καὶ μακάρων θεῶν φρένας ἀθανάτων:
τοίη γὰρ μεγάθυμος ἐπίσκοπος ὀβριμοπάτρη
Παλλὰς Ἀθηναίη χεῖρας ὕπερθεν ἔχει:
αὐτοὶ δὲ φθείρειν μεγάλην πόλιν ἀφραδίησιν
ἀστοί βούλονται χρήμασι πειθόμενοι,
δήμου θ᾽ ἡγεμόνων ἄδικος νόος, οἷσιν ἑτοῖμον
ὕβριος ἐκ μεγάλης ἄλγεα πολλὰ παθεῖν:
οὐ γὰρ ἐπίστανται κατέχειν κόρον οὐδὲ παρούσας
εὐφροσύνας κοσμεῖν δαιτὸς ἐν ἡσυχίηι
αἶσαν καὶ μακάρων θεῶν φρένας ἀθανάτων:
τοίη γὰρ μεγάθυμος ἐπίσκοπος ὀβριμοπάτρη
Παλλὰς Ἀθηναίη χεῖρας ὕπερθεν ἔχει:
αὐτοὶ δὲ φθείρειν μεγάλην πόλιν ἀφραδίησιν
ἀστοί βούλονται χρήμασι πειθόμενοι,
δήμου θ᾽ ἡγεμόνων ἄδικος νόος, οἷσιν ἑτοῖμον
ὕβριος ἐκ μεγάλης ἄλγεα πολλὰ παθεῖν:
οὐ γὰρ ἐπίστανται κατέχειν κόρον οὐδὲ παρούσας
εὐφροσύνας κοσμεῖν δαιτὸς ἐν ἡσυχίηι
fr. 4 (trad. di M. Cavalli)
Il
frammento si inquadra in un'elegia dal titolo Eunomia
(«La giusta legge») e descrive in termini drammatici la grave crisi
etica e sociale in cui versa Atene, prossima al tracollo. I versi
successivi completano il quadro: cittadini ridotti in schiavitù,
rapine, lotte spietate, atti sacrileghi, giovani mandati a morte;
sullo sfondo, la Giustizia che vigila in silenzio: Solone non
potrebbe usare parole diverse per raccontare la fine dei tempi. E in
effetti il sovvertimento dell'ordine sociale (la disnomia)
e l'esplosione dei conflitti segnano quasi un ritorno al caos
primordiale.
Ma non è stato Zeus a meditare dolori
per la città. La colpa è solo degli uomini, che, «sedotti dal
denaro», allucinati dal miraggio delle ricchezze, non si sono fatti
scrupolo di conculcare la legge e di sfidare gli dèi, pur di elevare
la propria condizione.
Le
vicende umane assecondano un copione infallibile: all'atto di
tracotanza (hýbris)
fa riscontro l'intervento della giustizia (dike),
di cui gli dei sono dispensatori (o strumenti). È un meccanismo
consequenziale che pertiene all'ordine naturale delle cose e non
contempla eccezioni (sempre che non si intervenga per tempo): il
castigo divino si abbatte sugli empî con furia esatta e mette a nudo
la vanità dei loro desiderî.
In
questo caso, a farne le spese è la città intera. Il «male comune»,
la punizione naturale, si materializza come l'ombra di un carnefice,
«bussa alla porta del singolo, / e le porte non vogliono fermarlo, /
e balza oltre l'alta muraglia, e tutti sorprende / e non serve
fuggire in rifugi nascosti.»
Solone
è il profeta di una divinità fatale, che opera secondo un consiglio
oscuro e al suo apparire suscita negli uomini un moto d'orrore. La
poesia soloniana cresce all'ombra di questo sentimento, una
forma di “sublime religioso” che si obiettiva in immagini
catastrofiche e di grande impatto visivo (l'assalto
violento, la tempesta, la morte). Gli dèi concedono agli uomini le
ricchezze, «da cui nasce rovinosa cecità» (ate);
gli uomini, divenuti empî, cadono vittima della trappola che Zeus ha
teso loro per punirli: essi pagano lo scotto della propria finitudine
ogniqualvolta tentano di scavalcarla. La punizione loro inflitta, più
che un'azione correttiva, sembra in questo caso la vendetta di una
divinità troppo umana, e perciò tanto più spietata. (Questa
visione trova conferma nell'Elegia
delle Muse,
che
si può considerare il Padrenostro
dell'antica
religione ellenica, sospesa tra il più tetro pessimismo e un senso
oscuro di impotenza).
Non è
facile sottrarsi alla sventura se non la si previene al momento
opportuno, né è sufficiente la buona volontà perché il «male
comune» sia scongiurato. È per questo che le riforme di Solone,
ispirate a istanze d'ordine e di pace sociale, lungi dal ripristinare
la concordia, gettano piuttosto la città in nuovi disordini. E il
buon legislatore, conscio che «nelle grandi cose piacere a tutti è
difficile», è travolto dall'onda del suo insuccesso e non ha altra
scelta che lasciare la città, in attesa che i malumori rientrino.
Intraprende così un viaggio per il Mediterraneo, mosso da un istinto
ulissiaco e da un connaturato desiderio di conoscenza. Da questo
momento in poi le notizie sul suo conto si fanno sempre più nebulose
e sconfinano nell'aneddotica.
* * *
È
pieno autunno, ad Atene si celebrano le feste Apaturie. Sono passati
poco meno di centocinquant'anni da quando Solone ha lasciato la città
ed è salpato per l'Egitto. Molte cose sono cambiate da quel giorno:
Atene, alla testa della lega di Delo, è ormai una grande potenza, ha
esteso il proprio controllo su vaste aree dell'Egeo e ha adottato una
costituzione democratica radicale.
Immaginiamo
una mattina tiepida, le strade della città percorse da un vento
leggero, qualche nuvola che trascorre pigramente sui cieli
dell'Acropoli. In occasione della festa, i giovinetti della città
recitano a gara delle poesie, recuperandole dall'ampio repertorio
della tradizione. Fra di loro è anche Crizia il Giovane, un
ragazzino di circa dieci anni (che avrà un ruolo di primaria
importanza nella politica ateniese di fine secolo). Attraverso i suoi
ricordi, riportati da Platone nel dialogo Timeo,
rievochiamo i casi e i discorsi di una giornata che con ogni
probabilità non è mai esistita, ma in cui pure ci piace credere.
«Vennero
recitate numerose poesie di vari poeti, e molti di noi ragazzi
cantammo anche poesie di Solone, in quanto a quel tempo erano nuove.
Allora, uno del nostro gruppo […] disse che gli sembrava che Solone
fosse stato non solo sapientissimo nelle altre cose, ma anche nella
poesia il più nobile fra tutti i poeti.»
Il
giudizio espresso dal ragazzo attira l'attenzione del nonno di
Crizia, Crizia il Vecchio. Il quale «si rallegrò molto, sorrise e
disse: “[...] se egli [Solone] non si fosse occupato di poesia in
modo accidentale, ma se si fosse impegnato con serietà come gli
altri, e avesse portato a termine quel racconto che aveva portato
dall'Egitto, e, a motivo delle discordie e a causa degli altri mali
che trovò dopo che era ritornato qui, non fosse stato costretto a
trascurarla, secondo la mia opinione né Omero né Esiodo né
qualsiasi altro poeta sarebbe diventato più famoso di lui.”»
Sollecitato
dalle domande dei ragazzi, il vecchio Crizia narra loro di come
Solone fosse venuto a conoscenza dell'antico racconto.
Facciamo
anche noi un passo indietro. Dopo aver lasciato Atene in balia di sé
stessa, Solone sbarca sulle coste africane e si intrattiene in
diverse città. A Sais, sul delta del Nilo, viene accolto
benevolmente dai sacerdoti della dea Neith. È uno di loro, Sonchis,
a narrargli le imprese gloriose di cui Atene è stata protagonista
novemila anni prima, in un'epoca remota e dimenticata da tutti
(fuorché dagli Egizi, che ne hanno serbato e tramandato la memoria).
La
narrazione del sacerdote egizio dischiude a Solone l'immagine di
un'Atene antidiluviana, luminosa e perfetta, tenuta salda dall'azione
di uomini incorrotti e valenti guerrieri, regolata da un ordinamento
politico senza pecche, sicura sotto l'egida di Atena, «amante della
guerra e della sapienza». A quel tempo la città, postasi a capo di
un'ampia coalizione, aveva risposto all'attacco di un esercito di
invasori provenienti da Occidente. Erano gli Atlantidi, abitanti di
un'isola «più grande della Libia e dell'Asia messe insieme», che
si estendeva di là dalle colonne d'Ercole e godeva della protezione
di Poseidon, dio del mare. Atlantidi e Ateniesi avevano ingaggiato
uno scontro memorabile, che si era risolto, infine, a favore di
questi ultimi.
Il
racconto relativo all'Isola Atlantide e alla guerra contro Atene
suscita l'entusiasmo di Solone, il quale, tornato in patria dopo
varie peregrinazioni, decide di immortalarlo in un poema.
Stando
a Platone, Solone abbandonò il progetto perché si trovò a
fronteggiare nuove difficoltà insorte nel frattempo ad Atene;
secondo Plutarco, «l'interruppe non perché occupato da altri
impegni, come dice Platone, ma piuttosto per l'età avanzata,
spaventato dalla mole del lavoro.» Ciò che è certo è che l'opera
non venne mai portata a termine.
Tutte
le informazioni che possediamo su Atlantide non ci vengono quindi da
Solone, ma da Platone, che descrive il continente con stupefacente (e
sospetta) precisione nel Crizia.
Il discorso è affidato a Crizia il Giovane, che – ancora
giovinetto, come si è visto – aveva ascoltato il racconto dalla
viva voce del nonno.
Atlantide
era un sogno emerso dalle acque: ricchissima, lussureggiante di
piante aromatiche e alberi da frutto, battuta da mandrie di elefanti, ospitava templi, cantieri, impianti di canalizzazione, ponti,
regge sontuose. Sulla sommità di un rilievo si ergeva il
tempio di Poseidon, un edificio colossale e dall'«aspetto
barbarico». Le mura, le colonne e il pavimento erano rivestite di
oricalco, un metallo prezioso di cui non si ricorda altro che il
nome. Platone ci dà anche dei ragguagli sull'assetto dell'esercito,
sull'assemblea dei re, sullo «statuto di Poseidone», sui sacrifici
rituali (come quelli da espletare prima che i sacerdoti, vestiti
d'azzurro, formulassero i loro giudizi al calar delle tenebre).
Per
molto tempo gli Atlantidi condussero una vita virtuosa, senza tradire
le proprie origini divine (Atlante, primo re dell'isola, era figlio
di Poseidon). Si mostrarono capaci di affrontare gli imprevisti della
vita e di gestire «con disinvoltura la gran massa dell'oro e delle
altre risorse che possedevano, ma come si porterebbe un peso, senza
lasciarsi ubriacare dal lusso e senza perdere il controllo di sé.»
Ma a lungo andare, come sempre accade, le passioni umane prevalsero.
Infranta l'alleanza con il mondo divino, il popolo degli Atlantidi
imboccò un cammino di decadenza irreversibile, lasciandosi
sopraffare dal lusso, dai vizi, dalle ricchezze. Furono gli stessi
abitanti i responsabili della propria caduta: Zeus deliberò di
punirli «nel giusto modo, perché riacquistassero equilibrio e
saggezza.»
A
questo punto s'interrompe la narrazione di Platone, per cui il Crizia
è «l'unica opera incompiuta fra molte stupende.» Non sappiamo a
quale castigo Crizia (ovvero Platone) intendesse alludere, ma
possiamo ben immaginarlo, perché il destino dell'Isola ci è
riferito altrove dall'autore. Raccolte le proprie forze, gli
Atlantidi estesero il proprio controllo fino all'Oriente, mossero
guerra agli Ateniesi e ne furono sconfitti, perdendo i territori
conquistati, che andavano dall'Egitto alla Tirrenia. «In tempi
successivi, però, essendosi verificati terribili terremoti e diluvi,
nel corso di un giorno e di una brutta notte, [...]
l'Isola Atlantide, [...] sommersa dal mare, scomparve.»
Con
una catastrofe si chiudeva la sfortunata parabola del continente,
inghiottito dalle acque dell'Oceano con i suoi tesori di arte e di
civiltà.
Nel modo in cui si è detto Solone era venuto a conoscenza del racconto di Atlantide: originale, inaudito, evocativo, aveva tutte le carte in regola per essere trasformato in un poema, ed egli non si lasciò sfuggire l'occasione. Mise per iscritto i nomi dei protagonisti, che il sacerdote di Sais gli aveva riferito, cercando di comprenderne il significato e traslitterandoli in greco. Stando a Platone, le carte in cui Solone avrebbe registrato tali nomi, destinati ad essere impiegati nel poema, sarebbero state trasmesse a un suo parente stretto, Dropide. Da Dropide sarebbero passate a Crizia il Vecchio e poi al nipote di quest'ultimo, Crizia il Giovane («Ebbene questi scritti li aveva mio nonno, e ora li possiedo io, che nella mia giovinezza li ho letti e riletti.»).
Questa
storia, beninteso, fa acqua da tutte le parti: ognuno giudicherà
dell'inverosimiglianza della storia di Atlantide e di quella –
meno nota – del poema cui Solone avrebbe posto mano per
raccontarla. Ci troviamo in presenza di uno pseudobiblium,
cioè di un'opera inesistente, menzionata da autori diversi come
fosse un'opera reale.
E
tuttavia, ipotizziamo per un attimo che dietro il resoconto del
Crizia
vi sia un fondo di verità, che notizie relative all'opera incompiuta
di Solone siano giunte a Platone (che era peraltro suo discendente),
magari non in forma scritta. L'Atlantide
di Solone sarebbe in questo caso un eccezionale esempio di aborto
letterario. Si badi: non una qualsiasi opera incompiuta, ma un poema
epico che – a giudizio di Platone – avrebbe potuto rivaleggiare
con le opere di Omero ed Esiodo. Non solo: esso avrebbe trattato il
mito più bello e più oscuro che l'antichità ci abbia consegnato.
Non c'è dubbio che, se Solone fosse riuscito a ultimarla, la
considereremmo oggi come il terzo pilastro della letteratura greca.
Parleremo
quindi dell'Atlantide
come di un capolavoro
in potenza.
Il soggetto dell'opera si adegua perfettamente alla sensibilità di
Solone: narrando le vicende dell'Isola egli tocca il nodo centrale
del rapporto tra umano e divino e traccia un itinerario di decadenza
che muove da una situazione di ordine iniziale (l'Atlantide fiorente
e magnanima delle prime generazioni) verso una situazione finale di
caos. L'atto di hýbris
degli
Atlantidi prelude alla loro sconfitta da parte della coalizione
continentale, capeggiata da Atene. La storia dell'Isola culmina
nell'inabissamento, una catastrofe di proporzioni bibliche che, nella
sua essenza poetica, si presta a esprimere il senso di “sublime
religioso” al quale sono improntati tanti dei versi superstiti di
Solone. Rivediamo – alla luce delle considerazioni fin qui svolte –
il passo dell'Eunomia
in cui il poeta ritraeva l'imminente rovina di Atene:
La nostra città non perirà per volontà
di Zeus:
non è questo il destino, non è questo
il disegno degli dèi.
Una dea dal grande animo ci protegge,
Pallade Atena,
figlia di altissimo padre, e tiene la sua
mano su di noi.
Ma sono i cittadini stessi che vogliono
distruggere
la grande patria – ciechi! - sedotti
dal denaro,
e la mente ingiusta dei capi: ma li
attende certo,
per la loro violenza, immenso male.
Sazietà non sanno, né godere con mente
serena
le
gioie lecite del convivio.
Contenuti
e toni simili avremmo trovato nell'Atlantide,
dove pure si raccontava la degenerazione di un popolo di uomini
«ciechi» e la sua fine. Asse portante dell'opera sarebbe stata la
lezione etica della superbia punita, resa immortale dalla
rappresentazione epica del cataclisma.
Né
Solone né Platone completarono il racconto sull'Isola. Il maremoto
che la fece sprofondare è metafora dell'oblio in cui essa si è
volontariamente richiusa.
Atlantide è molto più che un continente perduto: è un'Idea, intorno alla quale si condensano tutti i sensi occulti dello spirito umano, dal sentimento della bellezza al terrore del divino; è un soggetto irrequieto, vivo e ribelle, un germe di poesia e un monito sempre operante, un «personaggio» che vuole rimanere senza autore per non rinunciare alla propria natura ideale.
Atlantide è molto più che un continente perduto: è un'Idea, intorno alla quale si condensano tutti i sensi occulti dello spirito umano, dal sentimento della bellezza al terrore del divino; è un soggetto irrequieto, vivo e ribelle, un germe di poesia e un monito sempre operante, un «personaggio» che vuole rimanere senza autore per non rinunciare alla propria natura ideale.
La
«storia
che Solone portò dall'Egitto»
mette radici in quella terra inspiegabile dove arcaicità e verità
si incontrano: quanto più si profonda nel passato, mediante la
riflessione e la ricerca, tanto più l'uomo sente di avvicinarsi al
segreto delle cose, all'ἐτυμολογία
dell'esistenza.
In questo senso, meditare sulla storia e sul destino di Atlantide
significa interrogarci sulla nostra identità.
Gianluca Furnari
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