Il
sonetto XII delle Rime di
Guido Cavalcanti è la cronaca di un'atroce esperienza in
limine mortis: visitando la
mente del poeta, la donna (o meglio: la sua immagine) vi semina un
tale disordine che egli maledice
la vista e invoca – troppo tardi – la cecità. Nelle due terzine
Amore, eccezionalmente chiamato in causa nelle vesti di dio pietoso,
cede il posto a Morte, che esibisce il cuore del poeta come
un macabro trofeo.
Paura,
tormenti, crudeltà, dolore, pianto e
pena: nessuno, oggi,
racconterebbe l'amore con queste parole.* * *
Rime, XII - Perché non fuoro a me gli occhi dispenti
Perché
non fuoro a me gli occhi dispenti
o
tolti, sì che de la lor veduta
non
fosse nella mente mia venuta
a
dir: «Ascolta se nel cor mi senti?»
Ch'una paura di novi tormenti
m'aparve alor, sì crudel e aguta,
che l'anima chiamò: «Donna, or ci aiuta
che
gli occhi ed i' non rimagnàn dolenti!»
Tu
gli ha' lasciati sì, che venne Amore
a
pianger sovra lor pietosamente,
tanto
che s'ode una profonda voce
la
quale dice: - Chi gran pena sente
guardi
costui, e vedrà 'l su' core
che
Morte 'l porta 'n man tagliato in croce.
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Perché gli occhi non mi sono stati spenti o strappati, così che, attraverso la loro vista, [la donna] non fosse
venuta nella mia mente a dire:
«Ascolta se mi senti nel tuo cuore»?
Ché allora una paura di tormenti
inauditi mi colse, così spietata
e acuta che la mia anima gridò:
«Donna, ora aiutaci, affinché
gli occhi ed io non ne soffriamo.»
Tu li hai lasciati in tale condizione
che Amore è venuto a piangere
su di essi per compassione,
tanto che si sente una voce profonda
che dice: - Chi è addolorato guardi
costui [il poeta], e vedrà che Morte
porta il suo cuore tagliato in croce.
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*
* *
Alla fine del Duecento Firenze è una
città inquieta e in espansione: nelle sue contrade i capi delle
famiglie più influenti si fronteggiano in scontri continui e brigate
di gentili uomini trascorrono le ore serene tra cavalcate e
banchetti. In una via qualunque ci sarebbe capitato, forse, di vedere
un uomo in guarnacca, seduto su un «muricciuolo» e assorto nel
gioco degli scacchi: in questa posa lo scrittore Franco
Sacchetti sorprende Cavalcanti nel suo Trecentonovelle.
La
singolare coerenza delle fonti che delineano l'indole del poeta ci dà
l'illusione di avere davanti il vero Guido, un giovane ombroso e
cerebrale, incline al disprezzo, che si è guadagnato presso i
contemporanei la fama di miscredente: «si diceva tralla
gente volgare che queste sue speculazioni erano solo in cercare se
trovar si potesse che Iddio non fosse»1.
Questo gentiluomo solitario fu il miglior
amico di Dante e il peggior nemico di Corso Donati, capo dei guelfi
neri (un «Catilina» redivivo che, stando alla Commedia,
sarebbe stato trascinato all'inferno da un cavallo demoniaco).
Guido partecipò con una passione così sfrenata alla lotta
politica del suo tempo che nel 1300 un provvedimento dei Priori di
Firenze (fra i quali era lo stesso Dante) ne dispose il confino a
Sarzana, in Liguria, insieme a quello di altri leader troppo
chiassosi. Poche settimane dopo gli fu concesso di rientrare a
Firenze, dove venne stroncato dalla malaria.
Guido
è considerato, insieme al Dante delle Rime e della Vita Nova,
come la punta di diamante del Dolce
Stil Novo,
la prima corrente lirica di rilievo della nostra letteratura. Il cenacolo
che si raccoglie intorno a questo comune progetto di poetica,
radicalmente nuova rispetto alla tradizione siciliana e guittoniana,
rappresenta l'intelligencija
della Firenze del tempo: «una società basata sull'eccellenza
intellettuale e spirituale che esclude
automaticamente da sé chi non la condivide,
il “vile”», e si fa promotrice di una cultura «tendenzialmente
laica, e in Cavalcanti quasi eretica»2.
Valore-cardine
di questo circolo d'elezione – nella realtà – non è l'Amore, ma
l'«altezza d'ingegno»: la poesia dello Stil Novo è innervata da
una tensione intellettuale che ne costituisce l'aspetto più
tipico e a nostro avviso più
suggestivo, almeno quanto l'originalissima imagerie
amorosa.
I
versi di Cavalcanti, com'è noto, sono la geniale traduzione poetica
di un sistema filosofico ben preciso, che è quello
averroistico. Nella
canzone Donna me prega
il poeta costruisce la sua concezione poetica interamente su basi
speculative: l'amore non è una sostanza, ma un accidente, che ha
sede nell'anima sensitiva e ha origine da un'immagine sensibile (la
quale, mediata dal soggetto, si trasforma in immagine intellettuale);
esso impedisce di mantenere un sereno giudizio morale perché decreta
il primato dell'istinto sulla razionalità, svuota l'uomo delle sue
facoltà vitali e lo conduce quindi alla morte spirituale (Di
sua potenza segue spesso morte).
Cionondimeno,
non v'è traccia di struttura
nella poesia di Guido: la componente filosofica, pure onnipervasiva,
non inficia la bellezza e la purezza dei suoi versi; cosa che De
Sanctis, naturalmente, seppe intuire, quando vide in Guido uno
«scienziato» capace di
trasformare «un contenuto scientifico e rettorico» in «cosa viva»:
nella logica della poesia la “morte spirituale” coincide con la
morte fisica, e i tormenti di cui parla il poeta sono veri tormenti
della carne, carichi di una tremenda concretezza. La migliore poesia
di Guido sottende una visione agghiacciante che ha poco a che vedere
con le pene d'amore dei romantici. Il lessico delle sue Rime
non è, in definitiva, meno
infernale che erotico.
Riferimento
non casuale: è la «paura» il sentimento più autentico dei versi
cavalcantiani, e la
distanza tra la concezione dell'amore di Guido e quella di Dante è
la stessa che divide l'inferno dal paradiso. Nei componimenti di
Cavalcanti il poeta si trova, alla
vista della donna amata, in una condizione d'animo sorprendentemente
simile a quella del personaggio Dante quando la strada che porta alla
cima del colle della salvezza gli è sbarrata dal leone; identico è
anche l'effetto che si ripercuote sull'ambiente circostante (cfr. i
vv.: sì che parea che
l'aere ne tremesse /
che fa tremar di
chiaritate l'âre).
Non sarà forse un caso, se ammettiamo che esista una dimensione
condivisa di suggestioni nella quale i poeti si incontrano. A noi
pare che una remota connessione avvicini la terribile donna
cavalcantiana al leone
dantesco,
allegoria della superbia.
Allora par che ne la mente piova
una figura di donna pensosa
che vegna per veder morir lo core.
una figura di donna pensosa
che vegna per veder morir lo core.
Nelle
figure femminili i poeti – specialmente i medievali - proiettano i
loro ideali più alti: così fa Dante con Beatrice, immagine della
Grazia Operante e della Teologia; così farà Petrarca con Laura,
formula vivente della Gloria. La donna pensosa
del solitario Guido, la donna dal «dolce intelletto», non può che
essere l'incarnazione di quell'intelligenza
superba e fuor di misura
cui egli tende con tutto il suo essere; lo stesso ideale proibito da
cui Dante fu tentato, prima di imboccare il cammino della fede che lo
sciolse dal peccato.
Nel cimitero degli eretici Cavalcante
chiede a Dante per quale ragione il figlio Guido non sia con lui («Se
per questo cieco / carcere vai per altezza d'ingegno, / mio figlio
ov'è? e perché non è teco?»); il poeta risponde che egli non ha
intrapreso il viaggio nell'oltretomba di propria iniziativa e che
Virgilio è incaricato di condurlo da Beatrice, la donna che Guido
«ebbe a disdegno».
Lontana anni luce, in effetti,
dall'amore per Beatrice è la passione di Guido per Monna Vanna,
l'intelligenza laica: rifiutando ogni aiuto, egli misura i
labirinti della speculazione e confida solo in sé stesso quando la
ricerca della verità lo sospinge in terreni interdetti, oltre
l'«hic sunt leones». Consuma tutte le sue forze intellettuali nel
tentativo di dimostrare che non v'è alcun Dio, si ritrova «abstratto
dagli uomini» del suo tempo, come forse aveva desiderato; ma ormai
solo e sgomento. Nel suo fatale errore Guido scopre la propria sorte
di maledetto, la paura e il tormento dei senza-Dio; e, quando si
volta indietro per rifare il cammino a ritroso, le luci che lo hanno
guidato crepitano e si spengono per sempre. Così il gentiluomo
solitario cade prigioniero della propria mente. Trasumanato, ma nel
cielo sbagliato.
Gianluca Furnari
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1 G.
Boccaccio, Decameron, XVI, 9
2 Poesie dello Stilnovo, a cura di Marco Berisso, BUR, 2006, Introduzione, pag. 12
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