sabato 15 giugno 2013

Guido Cavalcanti: la passione di un gentiluomo solitario



    Il sonetto XII delle Rime di Guido Cavalcanti è la cronaca di un'atroce esperienza in limine mortis: visitando la mente del poeta, la donna (o meglio: la sua immagine) vi semina un tale disordine che egli maledice la vista e invoca – troppo tardi – la cecità. Nelle due terzine Amore, eccezionalmente chiamato in causa nelle vesti di dio pietoso, cede il posto a Morte, che esibisce il cuore del poeta come un macabro trofeo.
    Paura, tormenti, crudeltà, dolore, pianto e pena: nessuno, oggi, racconterebbe l'amore con queste parole.


* * *

                                Rime, XII - Perché non fuoro a me gli occhi dispenti



Perché non fuoro a me gli occhi dispenti
o tolti, sì che de la lor veduta
non fosse nella mente mia venuta
a dir: «Ascolta se nel cor mi senti?»



Ch'una paura di novi tormenti
m'aparve alor, sì crudel e aguta,
che l'anima chiamò: «Donna, or ci aiuta
che gli occhi ed i' non rimagnàn dolenti!»


Tu gli ha' lasciati sì, che venne Amore
a pianger sovra lor pietosamente,
tanto che s'ode una profonda voce


la quale dice: - Chi gran pena sente
guardi costui, e vedrà 'l su' core
che Morte 'l porta 'n man tagliato in croce.


Perché gli occhi non mi sono stati
spenti o strappati, così che, attraverso
la loro vista, [la donna] non fosse
venuta nella mia mente a dire:
«Ascolta se mi senti nel tuo cuore»?
   
Ché allora una paura di tormenti
inauditi mi colse, così spietata
e acuta che la mia anima gridò: 
«Donna, ora aiutaci, affinché
gli occhi ed io non ne soffriamo.»

Tu li hai lasciati in tale condizione
che Amore è venuto a piangere
su di essi per compassione, 
 
tanto che si sente una voce profonda
che dice: - Chi è addolorato guardi
costui [il poeta], e vedrà che Morte
porta il suo cuore tagliato in croce.


* * *

    Alla fine del Duecento Firenze è una città inquieta e in espansione: nelle sue contrade i capi delle famiglie più influenti si fronteggiano in scontri continui e brigate di gentili uomini trascorrono le ore serene tra cavalcate e banchetti. In una via qualunque ci sarebbe capitato, forse, di vedere un uomo in guarnacca, seduto su un «muricciuolo» e assorto nel gioco degli scacchi: in questa posa lo scrittore Franco Sacchetti sorprende Cavalcanti nel suo Trecentonovelle.
    La singolare coerenza delle fonti che delineano l'indole del poeta ci dà l'illusione di avere davanti il vero Guido, un giovane ombroso e cerebrale, incline al disprezzo, che si è guadagnato presso i contemporanei la fama di miscredente: «si diceva tralla gente volgare che queste sue speculazioni erano solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse»1.
    Questo gentiluomo solitario fu il miglior amico di Dante e il peggior nemico di Corso Donati, capo dei guelfi neri (un «Catilina» redivivo che, stando alla Commedia, sarebbe stato trascinato all'inferno da un cavallo demoniaco). Guido partecipò con una passione così sfrenata alla lotta politica del suo tempo che nel 1300 un provvedimento dei Priori di Firenze (fra i quali era lo stesso Dante) ne dispose il confino a Sarzana, in Liguria, insieme a quello di altri leader troppo chiassosi. Poche settimane dopo gli fu concesso di rientrare a Firenze, dove venne stroncato dalla malaria.
    Guido è considerato, insieme al Dante delle Rime e della Vita Nova, come la punta di diamante del Dolce Stil Novo, la prima corrente lirica di rilievo della nostra letteratura. Il cenacolo che si raccoglie intorno a questo comune progetto di poetica, radicalmente nuova rispetto alla tradizione siciliana e guittoniana, rappresenta l'intelligencija della Firenze del tempo: «una società basata sull'eccellenza intellettuale e spirituale che esclude automaticamente da sé chi non la condivide, il “vile”», e si fa promotrice di una cultura «tendenzialmente laica, e in Cavalcanti quasi eretica»2.
    Valore-cardine di questo circolo d'elezione – nella realtà – non è l'Amore, ma l'«altezza d'ingegno»: la poesia dello Stil Novo è innervata da una tensione intellettuale che ne costituisce l'aspetto più tipico e a nostro avviso più suggestivo, almeno quanto l'originalissima imagerie amorosa.
    I versi di Cavalcanti, com'è noto, sono la geniale traduzione poetica di un sistema filosofico ben preciso, che è quello averroistico. Nella canzone Donna me prega il poeta costruisce la sua concezione poetica interamente su basi speculative: l'amore non è una sostanza, ma un accidente, che ha sede nell'anima sensitiva e ha origine da un'immagine sensibile (la quale, mediata dal soggetto, si trasforma in immagine intellettuale); esso impedisce di mantenere un sereno giudizio morale perché decreta il primato dell'istinto sulla razionalità, svuota l'uomo delle sue facoltà vitali e lo conduce quindi alla morte spirituale (Di sua potenza segue spesso morte).
    Cionondimeno, non v'è traccia di struttura nella poesia di Guido: la componente filosofica, pure onnipervasiva, non inficia la bellezza e la purezza dei suoi versi; cosa che De Sanctis, naturalmente, seppe intuire, quando vide in Guido uno «scienziato» capace di trasformare «un contenuto scientifico e rettorico» in «cosa viva»: nella logica della poesia la “morte spirituale” coincide con la morte fisica, e i tormenti di cui parla il poeta sono veri tormenti della carne, carichi di una tremenda concretezza. La migliore poesia di Guido sottende una visione agghiacciante che ha poco a che vedere con le pene d'amore dei romantici. Il lessico delle sue Rime non è, in definitiva, meno infernale che erotico.
    Riferimento non casuale: è la «paura» il sentimento più autentico dei versi cavalcantiani, e la distanza tra la concezione dell'amore di Guido e quella di Dante è la stessa che divide l'inferno dal paradiso. Nei componimenti di Cavalcanti il poeta si trova, alla vista della donna amata, in una condizione d'animo sorprendentemente simile a quella del personaggio Dante quando la strada che porta alla cima del colle della salvezza gli è sbarrata dal leone; identico è anche l'effetto che si ripercuote sull'ambiente circostante (cfr. i vv.: sì che parea che l'aere ne tremesse / che fa tremar di chiaritate l'âre). Non sarà forse un caso, se ammettiamo che esista una dimensione condivisa di suggestioni nella quale i poeti si incontrano. A noi pare che una remota connessione avvicini la terribile donna cavalcantiana al leone dantesco, allegoria della superbia.

Allora par che ne la mente piova
una figura di donna pensosa
che vegna per veder morir lo core.

   Nelle figure femminili i poeti – specialmente i medievali - proiettano i loro ideali più alti: così fa Dante con Beatrice, immagine della Grazia Operante e della Teologia; così farà Petrarca con Laura, formula vivente della Gloria. La donna pensosa del solitario Guido, la donna dal «dolce intelletto», non può che essere l'incarnazione di quell'intelligenza superba e fuor di misura cui egli tende con tutto il suo essere; lo stesso ideale proibito da cui Dante fu tentato, prima di imboccare il cammino della fede che lo sciolse dal peccato.
    Nel cimitero degli eretici Cavalcante chiede a Dante per quale ragione il figlio Guido non sia con lui («Se per questo cieco / carcere vai per altezza d'ingegno, / mio figlio ov'è? e perché non è teco?»); il poeta risponde che egli non ha intrapreso il viaggio nell'oltretomba di propria iniziativa e che Virgilio è incaricato di condurlo da Beatrice, la donna che Guido «ebbe a disdegno».
    Lontana anni luce, in effetti, dall'amore per Beatrice è la passione di Guido per Monna Vanna, l'intelligenza laica: rifiutando ogni aiuto, egli misura i labirinti della speculazione e confida solo in sé stesso quando la ricerca della verità lo sospinge in terreni interdetti, oltre l'«hic sunt leones». Consuma tutte le sue forze intellettuali nel tentativo di dimostrare che non v'è alcun Dio, si ritrova «abstratto dagli uomini» del suo tempo, come forse aveva desiderato; ma ormai solo e sgomento. Nel suo fatale errore Guido scopre la propria sorte di maledetto, la paura e il tormento dei senza-Dio; e, quando si volta indietro per rifare il cammino a ritroso, le luci che lo hanno guidato crepitano e si spengono per sempre. Così il gentiluomo solitario cade prigioniero della propria mente. Trasumanato, ma nel cielo sbagliato.

Gianluca Furnari

__________________________________________________________________________________

1  G. Boccaccio, Decameron, XVI, 9
2  Poesie dello Stilnovo, a cura di Marco Berisso, BUR, 2006, Introduzione, pag. 12

Nessun commento:

Posta un commento